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Corriere della Sera, 27.10.2019

Vacondio (Federalimentare): l’export? Più 85% in 10 anni, ma in 10 anni, hanno pesato più le notizie false della crisi. Pasta e carne Sono i settori più colpiti dalle fake news

Dopo il metalmeccanico, l’alimentare rappresenta il secondo settore dell’industria manifatturiera italiana, con 142 miliardi di fatturato, di cui 42 grazie alle esportazioni. E Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare, ne va fiero. Più che i dazi, teme le fake news, «una delle ragioni per cui i consumi alimentari italiani sono scesi di 10 punti percentuali negli ultimi 10 anni: a forza di spaventarli, i consumatori scappano. Per fortuna che ci ha aiutato l’export, con l’incremento dell’85% nello stesso periodo, perché il cibo italiano è riconosciuto nel mondo come un prodotto premium. E dà lavoro a 385 mila dipendenti per i quali stiamo rinnovando il contratto, con l’accordo che contiamo di chiudere poco prima o subito dopo Natale».

Le fake news più deleterie della crisi?
«Sono calati i consumi pro capite anche di prodotti che di certo non possono essere considerati cari, come la pasta, per la quale non si può dire che la gente spenda meno a causa della crisi. Nel primo semestre del 2019 il consumo di pasta in Italia è sceso dell’1,5%, contro un aumento del 2,5% all’estero».

Ma a quali fake news fa riferimento?
«Secondo me hanno pesato, nel calo del 10% dei consumi di pasta in Italia nell’ultimo decennio, di cui il 5% negli ultimi due anni, per un buon 50%. Continuare a sentire che la pasta si fa con grano non buono importato dall’estero, alla fine produce effetti. Negativi».

(…)

Le notizie false riguardano solo il grano?

«No, ne girano anche nel settore della carne, in particolare sui danni di quella rossa. Non voglio scendere nei particolari, ma solo dire che il problema non è mai il singolo alimento, ma quanto se ne mangia, quindi la dieta vista complessivamente. Lo stesso vale anche per lo zucchero: fa male se preso in quantità sbagliate. Del resto, nei paesi dove hanno messo la tassa sullo zucchero, non si sono ottenuti risultati evidenti nel contrasto all’obesità. Se le false notizie fossero vere, il made in Italy alimentare non sarebbe un marchio premium».

I dazi Usa potrebbero mettere a rischio questo riconoscimento internazionale?

«Non credo. Posto che i dazi sono comunque da evitare e ci batteremo perché vengano tolti, non devono spaventarci. Non solo perché in questa tornata i prodotti italiani sono stati colpiti meno di altri, ma proprio perché i nostri prodotti sono premium: se il Parmigiano reggiano negli Stati Uniti passa a 45 dollari al chilo, contro il Parmesan a 8 dollari, il consumatore che lo comprava a 40 dollari continuerà a preferirlo anche a 45. Non lo compra perché ha fame, ma perché riconosce la sua eccellenza. Se continuiamo con la qualità, continueremo a esportare».

Insomma, il problema è solo il mercato interno?

«Diciamo che anche da questo si è tratto beneficio: i tanti nostri piccoli produttori – e mi preme sottolineare che delle nostre circa 7 mila aziende associate, solo il 2% supera i 250 dipendenti, con il 90% compreso tra i 9 e i 50 – anche a causa della diminuzione dei consumi interni hanno dovuto girare il mondo con la valigetta per vendere i loro prodotti. E oggi sui 42 miliardi di export agroalimentare italiano, 33 fanno capo alle industrie di trasformazione. Anche grazie agli accordi bilaterali, penso a quelli con il Canada e il Mercosur, che dovrebbero moltiplicarsi, non essere demonizzati, proprio perché il cibo italiano viene visto come status symbol. Se in Italia viene gente attratta dal nostro cibo, e il turismo enogastronomico lo testimonia, un motivo ci sarà».

Fonte: Corriere della Sera, 27.10.2019

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