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Gio. Dic 26th, 2024

 Per il 45% degli italiani, i prodotti agroalimentari derivanti da aziende “tradizionali” vengono percepiti – a prescindere dall’effettivo consumo – di qualità superiore rispetto a quelli delle aziende più avanzate dal punto di vista tecnologico. Ma a fronte di un futuro condizionato dai cambiamenti climatici e dalla necessità di attività produttive più sostenibili, non sembra esserci storia: il 54% dei consumatori reputa necessario un cambio di rotta per gli agricoltori italiani, attraverso investimenti in innovazione che permettano di affrontare la doppia sfida della competitività e sostenibilità.

Certo, non mancano gli irriducibili, quelli disposti a pagare di più pur di continuare ad avere prodotti da contadini meno avvezzi alla tecnologia (18%), così come un 13% si dice pronto a cambiare la propria dieta introducendo alimenti “alternativi” (come gli insetti o le alghe), un 5% disponibile a consumare cibi creati in laboratorio e un rimanente 10% indifferente all’origine territoriale e incline ad acquistare prodotti stranieri (della serie “Franza o Spagna, ….”).

Il consumatore è sovrano, ma la stessa survey realizzata da Nomisma in partnership con Crif e presentata questa mattina durante il V Forum Agrifood Monitor in diretta streaming, ha evidenziato come molte convinzioni – rivelatesi errate – da parte degli italiani sulle innovazioni in agricoltura derivano da una scarsa conoscenza, tanto da venire “ribaltate” una volta spiegate le funzioni di tali miglioramenti tecnologici, soprattutto se inquadrate nello scenario evolutivo verso il quale stiamo andando.

Uno scenario futuro contraddistinto dalla “scarsità”: di cibo (entro il 2050 ne occorrerà tra il 60% e 70% in più di quello attualmente prodotto per soddisfare la domanda alimentare mondiale), di acqua e di terra (sempre nel 2050 ogni essere umano avrà a disposizione 0,1 ettari di superficie coltivabile contro i 0,4 ettari del 1960) e in un contesto di clima “impazzito” (negli ultimi quarant’anni, il numero di disastri naturali nel mondo è più che triplicato). E’ anche da questa preoccupante visione che la Commissione Europea è partita con il lancio del Green Deal, un piano d’azione che dovrebbe portare l’UE entro il 2050 alla neutralità climatica (zero emissioni nette di gas a effetto serra) e che, con le sottostanti strategie “From Farm to Fork” e “Biodiversity” individua ambiziosi obiettivi che andranno ad incidere sensibilmente sulle attività agricole ed alimentari.

Gli scenari della scarsità alimentare, delle risorse naturali e dei cambiamenti climatici ci sembrano fantascienza ma in realtà ci riguardano da vicino, soprattutto per le implicazioni che generano sul mercato dei prodotti agricoli e sul quadro di regolamentazione del settore. Non dobbiamo dimenticarci del fatto che, per molte derrate primarie, l’Italia non è auto-sufficiente – negli ultimi dieci anni il nostro import agricolo è cresciuto del 55% – e che la tenuta socioeconomica dei nostri territori è legata ad una filiera, come quella agroalimentare, che negli stessi anni ha aumentato il proprio posizionamento internazionale grazie ad una crescita dell’80% nell’export dei propri prodotti” hadichiarato Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare di Nomisma.

Se quindi non si può prescindere da competitività e produttività, al tempo stesso non possiamo esimerci dall’essere sostenibili. Anche perché la stessa Unione Europea ce lo impone. Come fare? Innovando, vale a dire introducendo innovazioni tecnologiche in grado di rispondere al duplice obiettivo di una “competitività sostenibile”. E rispetto a questo obiettivo congiunto, tenendo conto dello scenario che dobbiamo affrontare, strumenti come le tecnologie di evoluzione assistita (miglioramento genetico) o di precision farming possono indubbiamente apportare un valido contributo in tale direzione. Anche perché, vale la pena ricordarlo, se non ci fosse stato il miglioramento genetico apportato dall’uomo, non mangeremmo né arance (derivanti dall’incrocio tra altri agrumi), né clementine, né uva senza semi, ma neppure potremmo ottenere mais e grano duro per produrre pasta con gli stessi risultati di oggi. E domani, potremmo continuare a coltivare le viti in aree che oggi sono idonee per la produzione di vino ma che, in un futuro non troppo lontano a causa dei cambiamenti climatici, potrebbero rischiare di scomparire.

La stessa agricoltura 4.0, pur essendo ancora poco diffusa tra le aziende italiane, ove applicata permette non solo di recuperare efficienza grazie a risparmi nei costi di produzione che, per colture estensive come il frumento tenero, arrivano fino al 15% ad ettaro, ma anche una maggiore produttività che può arrivare ad un +10%. Il che si traduce non solo in un incremento di redditività per l’agricoltore (sostenibilità economica) ma anche in un minor impatto ambientale, grazie all’uso di agrofarmaci, fertilizzanti e acqua in base alle reali necessità delle piante coltivate (sostenibilità ambientale). Purtroppo, la ridotta diffusione di tali innovazioni tecnologiche tra le aziende italiane deriva da diversi gap strutturali, comuni all’adozione di questo tipo di tecnologia. Un recente studio della Commissione Europea ha infatti messo in luce come tra le aziende europee, il primo ostacolo all’utilizzo dell’agricoltura di precisione (e 4.0) sono le ridotte dimensioni aziendali (lo evidenzia il 26% delle imprese intervistate), il costo di accesso ma anche la ridotta conoscenza di tali tecnologie. Ormai superfluo ricordare, a tale proposito, come l’agricoltura italiana presenti una dimensione media poderale di 11 ettari contro i 17 della media Ue, una formazione agraria completa che riguarda solo il 6% dei conduttori contro il 9% dell’Ue e un accesso a internet in aree rurali che interessa l’82% delle famiglie italiane residenti in tali zone rispetto alla media europea dell’86% (ma che arriva al 99% nei Paesi Bassi).

“Gli obiettivi di sostenibilità che pone il Green Deal sono ambiziosi e per quanto condivisibili non possono essere lasciati solo in capo agli agricoltori senza prevedere strumenti ed interventi specifici a supporto. Ecco perché abbiamo chiesto ed ottenuto in Europa che il 55% dei fondi destinati allo Sviluppo Rurale derivanti dal Next Generation EU fossero riservati gli investimenti in innovazione nelle aziende agricole. Lo stesso dicasi, proprio per raggiungere le finalità della strategia From Farm to Fork, in una maggior apertura da parte dell’Unione Europea verso l’adozione delle NBT, le tecniche di miglioramento genetico”, ha sottolineato Paolo De Castro, Presidente del Comitato Scientifico di Nomisma.

“La sfida dell’innovazione o Agritech, così strategica per il futuro della nostra agricoltura e come evidenziato dalla ricerca Agrifood Monitor di Nomisma e CRIF, può essere vinta anche attraverso uno sviluppo delle iniziative imprenditoriali di start up in grado di ampliare l’offerta di servizi e prodotti tecnologici e digitali a supporto del settore primario. Ed è proprio con questo spirito che CRIF assieme a Fondazione Golinelli hanno lanciato la prima edizione di I-Tech Innovation 2021, un programma che prevede investimenti per oltre 1,6 milioni di euro rivolti a start-up innovative in settori strategici a livello nazionale tra cui, appunto, quello del FoodTech/Agritech” – ha commentatoCarlo Gherardi, CEO di CRIF.

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