Le grandi aziende, alimentari e non, sono ogni giorno alle prese con gli aumenti dei costi di produzione. Allo stesso tempo, la preoccupazione principale è come far pagare ai consumatori questi costi senza che questi ultimi orientino le loro scelte di consumo verso altri marchi. Un dilemma non da poco.
La soluzione – scrive Il Salvagente – è in una serie di pratiche chiamate shrinkflation o cheapflation.
Per shrinkflation si intende la pratica di ridimensionare la quantità delle confezioni mantenendo intatto il prezzo.
Per cheapflation si intende la sostituzione di ingredienti con altri di minore qualità.
Escamotage di marketing di cui – segnala Il Salvagente – può accorgersi solo un consumatore attento e dotato di grande memoria.
Pratiche che restano marginali
“Sebbene queste pratiche discutibili esistano da molto tempo, rimangono marginali, anche in questo periodo di inflazione”, sottolinea il mensile francese QueChoisir che a sostegno della loro tesi portano i dati di un loro report secondo cui su 110 mila prodotti nazionali il ridimensionamento riguarderebbe in realtà solo poche decine di referenze”.
Se nella maggior parte dei casi, dei costi a litro o a kg non sono giustificati da nessuna modifica qualitativa o etica, in altri casi c’è stato un miglioramento nel packaging a giustificare la discreta riduzione della quantità di prodotto.