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Deinfluencing, ossia quando gli influencer suggeriscono cosa non comprare

I video pubblicitari con i consigli per gli acquisti sono stati scavalcati da chi suggerisce cosa evitare

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Per dimostrare la propria credibilità molti influencer stanno facendo l’opposto di quel che ci si aspetta da loro: non chiedono di comprare i prodotti di questo o quel brand, anzi suggeriscono cosa non comprare (e formalmente non è nemmeno pubblicità). Poi, ma non necessariamente, possono passare al contrattacco suggerendo soluzioni più economiche, più valide, più sostenibili o quel che è. Sono deinfluencer: vorrebbero essere una specie di scudo, un salvagente per chi rischia di cadere nella trappola della pubblicità ingannevole a mezzo social. È l’ultima grande trasformazione della influencer economy, che inevitabilmente si aggiorna e si adegua alle esigenze delle piattaforme e del mercato. . E’ quanto riporta Linkiesta nell’articolo che riportiamo qui di seguito.

L’hashtag, #deinfluencing negli ultimi giorni è diventato virale su TikTok con circa centocinquanta milioni di visualizzazioni, ma a dispetto dei numeri al momento è ancora un fenomeno marginale in termini di impatto. «È un fenomeno che funziona su TikTok, dove pur di diventare virali si fa qualsiasi cosa», dice a Linkiesta l’Estetista Cinica, nome d’arte di Cristina Fogazzi, un esempio di imprenditrice che ha saputo muoversi sui social per costruire passo dopo passo il suo brand e la sua immagine senza troppi artifici, senza nascondere, fingere, mentire. «È ancora solo un modo per fare qualche visualizzazione facile, e te ne accorgi dal fatto che spesso le critiche non sono contro marchi come quello di Estée Lauder, che magari può far meno rumore, ma contro il brand di Rihanna, per fare un esempio, perché criticare direttamente una persona famosa attira l’attenzione», aggiunge Fogazzi.

È vero infatti che gli influencer che consideriamo star dei social sono pochi, una percentuale minuscola rispetto al mare dei microinfluencer con poche migliaia di follower. E gli influencer grandi non hanno molto interesse a rovinarsi la reputazione con i brand e il mercato: sono pur sempre la loro prima fonte di guadagno. Nella sua newsletter Ellissi, Valerio Bassan ha scritto che ancora adesso alcuni personaggi possono provare a farci acquistare un prodotto anziché un altro, «ma troppo spesso sovrastimiamo la loro portata e il loro effetto sulla società».

Il deinfluencing potrebbe essere l’ennesimo trend social effimero, passeggero, presto la bolla potrebbe sgonfiarsi. Oppure il fenomeno potrebbe crescere ancora. In fondo siamo solo all’inizio: la prima deinfluencer è stata Maddie Wells, che in un video di settembre 2020 – due milioni e mezzo di visualizzazioni – ha fatto il nome di diversi prodotti cosmetici che i clienti di Sephora e Ulta – negozi in cui ha lavorato tra il 2018 e il 2019 – hanno spesso riportato indietro. Lei stessa nel video usa la parola che sembra una storpiatura: «De-influencing». Allora non sembrava ancora rilevante, poi pian piano tanti altri l’hanno imitata. Adesso ce ne sono tantissimi.

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Molti osservatori attribuiscono la diffusione del deinfluencing alla crisi economica, a un periodo in cui tra inflazione, incertezza sul futuro e altri timori un influencer si lascia ascoltare se dice cosa non comprare anziché dare i soliti consigli per gli acquisti che uno non può fare.

«Questa tendenza critica, spesso condita da un piglio quasi anti-consumista, può essere pure apprezzabile. È interessante vedere un gruppo di persone avviare un dibattito sulle modalità, le tecniche e le storture di un certo tipo di influencer marketing, per altro utilizzando gli stessi mezzi e gli stessi canali. Ma mi viene un dubbio. Non è che questi deinfluencer, alla fine, risultino un po’ troppo simili al sistema che vorrebbero denunciare? I deinfluencer, insomma, agiscono all’interno di un cortocircuito disegnato per essere tale», scrive Bassan su Ellissi.

Forse i deinfluencer non stanno cercando di abbattere il mercato in cui si muovono, forse vogliono solo partecipare al gran ballo entrando dalla porta sul retro. Dopotutto, la influencer economy negli ultimi anni è diventata una miniera d’oro per chi ha saputo ritagliarsi uno spazio e un ruolo.

Dagli accordi con i brand per quelle pubblicità indicate con l’hashtag #adv ne è nata un’industria da sedici miliardi di dollari. TikTok è diventato una delle colonne portanti dell’e-commerce: i brand hanno investito denaro nel marketing degli influencer sapendo che un video virale può far fare il “tutto esaurito” praticamente a qualsiasi prodotto. Non a caso l’hashtag #TikTokMadeMeBuyIt (traduzione non letterale: l’ho comprato grazie a TikTok) mette insieme oltre quaranta miliardi di visualizzazioni.

Il deinfluencing non andrà a minare questo mercato, non distruggerà l’influencer economy (o almeno è decisamente improbabile). Però rischia di creare conflitti tra brand rivali, influencer, uffici marketing e ogni attore sulla piazza. «Fintanto che si resta nel campo delle opinioni è tutto legittimo», dice Cristina Fogazzi. «Nessuno contesta l’opinione di nessuno, ci mancherebbe. Diventa un problema se si fanno circolare falsità o se si fa una pubblicità per screditare un prodotto, mentre noi per pubblicizzare i nostri dobbiamo, giustamente, fare lo slalom tra i paletti posti dalle autorità di regolamentazione».

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Le norme che regolano il mercato pubblicitario sono stringenti – soprattutto in Italia – e impediscono pubblicità ingannevole, pubblicità comparative (non ovunque, in Italia sì), attacchi diretti ai competitor (ovviamente). E soprattutto in termini di controllo e sorveglianza c’è molta differenza tra i canali pubblicitari classici e le piattaforme social.

Instagram e TikTok non sono più da tempo quella specie di far west che erano all’inizio, il mondo dell’advertising è stato regolamentato anche lì – basti ricordare che a un certo punto gli influencer sono stati obbligati a distinguere i contenuti sponsorizzati da quelli quotidianamente pubblicati inserendo l’hashtag #adv o #ad. Ma seguire i profili di milioni di influencer, microinfluencer o presunti tali è praticamente impossibile.

«La realtà è sempre più avanti rispetto al legislatore, anche perché la tecnologia si evolve a velocità incredibili», spiega Sandro Castaldo, docente del dipartimento di Marketing alla Bocconi. «Prima o poi si arriverà a inquadrare anche questi particolari video in una cornice legislativa, se ce ne sarà bisogno». È quel che è accaduto con altri segmenti del mondo pubblicitario in passato, ad esempio con il product placement in tv e al cinema, e in generale in tutti quei settori che devono adeguare regole e norme alle nuove piattaforme. Prima però bisogna capire se il deinfluencing dura o è solo una moda passeggera.

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TM

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