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Dom. Dic 22nd, 2024

Comunicazione, eccessi e showbusiness, co-working e restaurant sharing, private dining, autarchia alimentare, texture e struttura, monoingredienti e monocromatismi sono solo alcune tra le tendenze analizzate nell’articolo uscito sul Mensile di marzo del Gambero Rosso di cui online c’è questo estratto.

“L’ospite è sovrano”, diceva qualche mese fa Elena Arzak dal palco del Kursaal di San Sebastián. Dal congresso Gastronomika lanciava una riflessione dalla portata rivoluzionaria, in quel contesto: “C’è un nuovo pubblico con molteplici e diverse sensibilità, con intolleranze e che vuole sfuggire al menu degustazione: perché vuole scegliere, vivere un’esperienza unica e personale”. Non è un’ovvietà, soprattutto nel paese della dittatura dei tasting menu infiniti. Che sia un’idea poi rimasta tale, o un seme che germinerà con i tempi dovuti, è comunque una riflessione emblematica di un mondo: quello dell’alta ristorazione, che deve farsi i propri conti, talvolta in senso letterale, in tasca e sul campo.

Se un gigante come Albert Adrià – sì, proprio lui – ha dovuto cambiare in corsa il format del suo Enigma, eliminando il “degustazione obbligato” e adeguando gli orari alle esigenze dei suoi clienti, significa che i tempi sono davvero cambiati. O stanno cambiando: lì in Spagna, così come – tutto lascia supporre – qui da noi. Non solo per i venti di crisi che si abbattono su un’Europa già prostrata dal Covid (e ora agitata da echi di guerra), ma proprio per un ribaltamento di esigenze e priorità, di chi frequenta i ristoranti come di chi ci lavora. E non è un caso se proliferano locali informali che si pongono a metà tra wine bar e ristorante, spesso a opera proprio di persone che hanno trascorsi nell’alta ristorazione, che hanno scelto di svincolarsi da certe ritualità e da obblighi dati per scontati. Eccoli così rimodulare cantine molto personali, cucine precise, carte smilze firmate da chef e imprenditori che spesso rinunciano alla tradizionale ripartizione in portate a favore di un elenco unico di piatti, grandi e piccoli, fruibili in modo libero. È il segnale di un desiderio di leggerezza e libertà. È un indizio, non l’unico, di un mondo che ripensa se stesso, nelle forme come nei contenuti.

Proprio dei contenuti, spesso, si percepiscono anteprime proprio nei congressi che presentano riflessioni, ricerche, proposte e novità in movimento all’interno del settore. E se si immagina che si rivolgano a un auditorium ristretto, quello del fine dining che secondo qualcuno ormai sta appassendo, bisogna ascoltare Niko Romito quando dice che no, non è così. “C’è un dialogo aperto tra cucina alta e bassa”, riflette lo chef abruzzese. L’alta ristorazione ha tempi, spazi, risorse umane (anche se non sempre quelle economiche!) per fare ricerca, quella sperimentazione che poi verrà assorbita dall’intero mondo ristorativo e spesso (guarda proprio la storia di Adrià) anche dall’industria alimentare. Se oggi ci sono strumenti alla portata di tutti, se si hanno conoscenze tecniche che rendono la nostra tavola più sicura, leggera e gustosa, questo si deve alla ristorazione “alta” che è stata pioniera e alle sue conquiste poi declinate in diverse forme: “Un sistema gastronomico funziona quando la cucina di ricerca influenza altri tipi di modelli più democratici, persino quelli legati alla ristorazione collettiva”, come l’esperienza di Intelligenza Nutrizionale di Romito, nella mensa dell’ospedale Cristo Re, dimostra.

Il compito di certa cucina è anche porsi delle domande, e spesso il luogo per farlo sono i congressi, come nel caso di Identità Golose, dove Romito e Cracco, in momenti diversi ma perfettamente allineati, hanno suggerito l’esigenza di riformulare il concetto di rispetto della materia prima, perché quella narrazione che vuole che un prodotto di qualità non si debba toccare affatto è un enorme fraintendimento: “Il rispetto deve arrivare a monte, nella conoscenza approfondita del prodotto, dopo dobbiamo usare tutte le conoscenze tecniche a disposizione per farla esprimere al massimo”, è il punto di vista di Romito, sintetizzato dalla chiosa di Carlo Cracco, “altrimenti il cuoco che ci sta a fare?”. E se le esigenze alimentari si fanno sempre più impellenti, è la ricerca che spinge per trovare risposte adeguate, per esempio per ampliare il paniere alimentare, indagando il potenziale gastronomico di alcuni elementi o di parti di essi (piaccia o no, l’apertura alla farina di grilli va in questa direzione: trovare fonti di proteine animali che non gravino sull’ambiente in termini di emissioni e consumo del suolo.

E a proposito di entomofagia: secondo la Fao gli insetti edibili sono parte della cultura alimentare di oltre 2 miliardi di persone nel mondo, e alcuni di questi hanno fatto il loro ingresso nella cucina d’autore già da tempo, come le formiche dal sapore di lemongrass nei piatti di Alex Atala), o per trovare formule efficaci di sostenibilità gastronomica, quella che passa attraverso il riuso, la riduzione degli scarti, la valorizzazione in ogni parte delle materie prime. Ma la strada della sostenibilità è tortuosa, se affrontata con senso critico; prendi il concetto del no waste: siamo sicuri che cuocere delle bucce per un’intera notte non abbia un impatto ambientale maggiore che buttarle? “Dipende, soprattutto dalla quantità di scarti”, replicano Valerio Serino e Lucia De Luca (Terra a Copenaghen, Green Star Michelin per la sostenibilità). Oppure il foraging, che tutt’altro che essere un bene in sé e per sé, può rappresentare una minaccia al mondo selvatico: raccogliere quel che è raro può danneggiare gli ecosistemi. Di questo e di altro si parla nei congressi, quando – accanto alla genesi dei nuovi piatti – si cerca di andare a fondo su temi chiave non solo della tavola, ma del nostro presente. Abbiamo cercato di riunire qui gli spunti più interessanti, ascoltati nelle prime settimane del nuovo anno, in Spagna, tra Gastronomika e Madrid Fusión, e a Milano, nei giorni di Identità Golose. Ne emerso un reticolo di connessioni e ragionamenti che portano a disegnare il profilo del cibo che sarà.

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