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Mer. Nov 6th, 2024

Come sta cambiando per gli italiani il modo di vivere la cucina e il momento dei pasti? 

Ne parla Giovanni Ballarini, in un articolo – ripreso da Ilfattoalimentare – di approfondimento pubblicato su Georgofili.info, notiziario di informazione a cura dell’Accademia dei Georgofili.

In Italia ristoranti, tavole calde, osterie, trattorie e paninoteche sono sempre affollate, iniziando dai bar, nei quali la mattina circa i due terzi degli italiani sostituiscono il caffelatte casalingo con il cappuccio e la brioche.

Le città sono piene di fattorini che portano il pranzo o la cena ai sempre più numerosi single e alle famiglie, mentre i supermercati hanno banchi pieni di piatti pronti per l’uso che basta scaldare. Aumentano gli italiani che a casa non cucinano e consumano fuori casa almeno un pasto, mentre i tradizionali ricettari sono sostituiti da internet, le app permettono di conoscere una ricetta, ordinare un piatto e in rapide mosse comporre un menu che spesso solo nel nome ricorda quello della nonna o della mamma, quando non si ricorre all’intelligenza artificiale di ChatGPT con il quale dialogare su una ricetta.

La produzione di sughi pronti, pizze surgelate, zuppe e altri alimenti già cucinati che è sufficiente scaldare è in continua ascesa e in diminuzione è il tempo che gli italiani occupano in cucina, circa un’ora tra colazione, pranzo e cena, in confronto ai 23 minuti degli americani. In una parola, in Italia si cucina sempre meno, mentre la passione per il cibo degli italiani si sposta sulla cucina virtuale dei programmi televisivi per gli anziani e della rete per i giovani, in una rivoluzione alimentare che sta lentamente contagiando le generazioni più mature. Un fenomeno molto complesso, questo ora tratteggiato, che ha importanti riflessi su tutta la catena alimentare, dalla produzione degli alimenti agli sprechi e ai rifiuti, e che consente alcune considerazioni antropologiche.

Una prima considerazione riguarda il fenomeno della preparazione del cibo non più in casa, ma in un nuovo, precedente anello della catena alimentare. Un fenomeno non nuovo e iniziato nel XIX secolo quando nella casa, soprattutto contadina, da campi, vigne e porcile arrivavano frumento, uva e maiale dai quali e secondo tradizioni locali si ottenevano pane e pasta, vino e salumi, che nel XX secolo sono invece prodotti dai fornai, nelle cantine e nei salumifici, con indubbi vantaggi, anche qualitativi. Ora fuori della casa e della famiglia si preparano cibi pronti ad essere mangiati spezzando millenari e tradizionali legami con le stagioni e soprattutto con il territorio, per cui oggi in Italia le cucine regionali sono quasi scomparse, pur mantenendosi alcuni alimenti destagionalizzati e delocalizzati diventati indicatori di una cucina italiana. Tra questi ultimi, la pizza da cibo regionale è divenuto un piatto nazionale assumendo oltre 30 forme, il Prosecco da vino locale imperversa in tutti gli apericena della penisola, il pesto un tempo ottenuto dalle foglie di basilico del vaso o del piccolo orto ligure è un nuovo condimento industriale che unifica la pasta italiana. E tanti altri esempi si potrebbero citare.

Se il cibo preparato fuori casa ha portato al passaggio dalle cucine regionali a una cucina nazionale, al tempo stesso favorisce le innovazioni e soprattutto le contaminazioni con altre cucine. Anche queste non sono una novità, perché tutte le cucine regionali italiane erano diverse in quanto frutto di differenti contaminazioni con quelle arabe, spagnole, francesi, austro-ungariche, ebraiche, mentre oggi a queste si aggiungono cucine di Paesi sempre e più lontani raggiungendo gli estremi dell’Asia e dell’Oceano Pacifico. Nel passato i lenti tempi hanno permesso d’incorporare le contaminazioni e le novità nelle identitarie cucine regionali per cui il mais americano è stato accolto tra le pultes di antica romana memoria e trasformato in polenta, la patata in gnocchi, il pomodoro in sugo per la pasta. Invece oggi, nei rapidissimi e tumultuosi tempi moderni le contaminazioni alimentari non portano a incorporazioni, ma a sostituzioni e quindi a scomparsa di lunghe se non millenarie tradizioni alimentari.

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