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Gio. Nov 21st, 2024
Claudio MorelliClaudio Morelli

Giornalista, fotoreporter e consulente editoriale, Claudio Morelli ha sviluppato negli anni una grande esperienza nei reportage grazie ad una naturale propensione a raccontare storie attraverso le immagini.


È alla guida della redazione di Chef in Camicia da pochi mesi, ma ha già dato una nuova identità al media, rendendolo ancora più coinvolgente e audace. In questa intervista esclusiva per FoodAffairs, Claudio Morelli ci svelerà i segreti del suo lavoro in Chef in Camicia e la sua visione del mondo del giornalismo.

Claudio, essendo cresciuto a Napoli, che è una città con una tradizione culinaria molto ricca e antica, come hai sviluppato il tuo rapporto con il cibo nel corso degli anni? Quali sono i piatti che ami di più?

Il mio rapporto con il cibo è abbastanza semplice: sono costantemente affamato e cerco di assaggiare qualsiasi cosa. Napoli è una città che offre tanto a livello culinario, prima di tutto per la ricchezza del territorio, che ha una grande abbondanza di materie prime dal sapore unico, tra cui gli ortaggi e il pesce. Le uniche cose che mangio mal volentieri sono quelle cucinate male, soprattutto le cose stracotte. Trovo che soprattutto carne e pesce abbiano bisogno di una certa cura: non dobbiamo diventare tutti cuochi perfetti, però se cuoci un polpo per due ore perdi tutte le sue proprietà. I miei piatti preferiti sono tanti, certamente la fa da padrona la pasta e fagioli, e tutto ciò che ha a che fare con il mondo del mare e delle interiora.

Da quando sei entrato a far parte del team di Chef in Camicia a gennaio di quest’anno, quali sono state le principali sfide che hai incontrato nel tuo ruolo di guida della redazione?


Penso che in qualsiasi lavoro la sfida più complessa sia sempre quella della gestione delle risorse umane, specialmente quando vuoi portare dei cambiamenti importanti nell’approccio e nel flusso di lavoro. La mia squadra era da creare, sia con persone già presenti in azienda sia con nuove assunzioni. Adesso abbiamo completato il reparto con l’ultimo ingresso di Federica Palladini nel ruolo di head-of-content, una giornalista di grandi capacità, esperta del settore. Poi ci sono i processi, le relazioni con gli altri team, ma adesso posso cominciare a dedicarmi di più al contenuto e alla crescita.

In che modo hai affrontato queste sfide e quali strategie hai messo in atto per superarle e raggiungere i tuoi obiettivi?


Cerco di essere carismatico per il mio team ma allo stesso tempo sono uno che sa delegare. Pensare di accentrare qualsiasi cosa è un miraggio ed è anche controproducente. La mia soddisfazione è veder entrare ragazzi e ragazze per uno stage e ritrovarmeli professionisti dopo un anno. Per fare questo l’unica cosa da fare è dar loro fiducia, accettare che ci siano degli errori e raffinare gli errori mano mano. Questo avviene anche per i format: preferisco sempre “partire lean”, partire leggero, talvolta anche in modo grezzo, e migliorare passo dopo passo. Per fortuna il digital ci offre anche tanti dati per capire meglio quello che facciamo. Sono uno strumento molto utile.

Parliamo dei reportage: come affronti la responsabilità di documentare le tradizioni culinarie di una regione o di un paese sconosciuto a te? Quali sono le tue strategie per entrare in contatto con la comunità locale e raccogliere informazioni autentiche?


Giornalisti e antropologi hanno molto in comune. La differenza sostanziale, oltre al fatto che il nostro lavoro non ha valenza scientifica ma solo documentativa, è che un antropologo ha molto più tempo. Per noi organizzare un servizio spesso vuol dire farlo in pochi giorni. Credo sia importante imparare a conoscere le persone e le loro storie prima di lavorare, creando una relazione con loro basata sulla fiducia e sulla trasparenza. Questo spesso innesca una catena virtuosa per la quale il tuo contatto ti dà un altro contatto e poi un altro e così via: fonti delle fonti delle fonti. Secondo me, uno dei più grandi limiti della modernità in questo lavoro è pensare di poter cercare storie, idee e fonti su internet senza andare sul campo, senza affidarsi alla letteratura, alla stampa o facendo delle telefonate. Un giornalista che fa così perde il 90% delle informazioni.

Cosa hai imparato dalle persone che hai incontrato lungo il tuo percorso professionale? Quali sono i tuoi principali riferimenti nel campo del reportage e del giornalismo?


Quasi tutto quello che ho imparato l’ho imparato dalle persone. Colui che ritengo il mio maestro è certamente Walter Mariotti che ho conosciuto quando lavoravo con IL (mensile del Sole24Ore), che aveva fondato e diretto. Ancora oggi ogni tanto collaboriamo, lui è direttore editoriale a Domus. Con IL ho fatto tra i miei reportage più importanti in America Latina e in Europa. Walter mi ha insegnato prima di tutto l’importanza di dare rilievo ai contenuti originali e al racconto di storie di singole comunità o persone che, però, possono avere un valore universale. E poi, grazie anche a Raffaele Vertaldi, il photo-editor del magazine, ho capito l’importanza della parte visiva, l’importanza di toccare il cuore oltre alla testa, e questo, per un fotoreporter, è un dono prezioso. Se guardo ancora più indietro, mi viene in mente un’altra giornalista e photo-editor, Chiara Corio, che ho conosciuto quando collaboravo con Anna. Lei mi ha insegnato tanto sul nostro mestiere. E poi il mio amico fraterno, Antonio Zambardino, scomparso qualche anno fa. Quando arrivò a Napoli e ci conoscemmo, io ero un fotoreporter principalmente di cronaca, e lavoravo per i quotidiani. Lui mi fece capire l’importanza nella cura dell’immagine e dei presupposti culturali che ne devono essere alla base. È grazie a lui se dalla cronaca mi sono spostato sempre di più sul reportage.

Oggi i miei riferimenti sono tra i più disparati. Certamente nel mondo del giornalismo tradizionale seguo i grandi media americani e britannici, sia dal punto di vista del contenuto che dell’innovazione nel campo: prima di tutto New York Times e The Guardian. Ho apprezzato in passato l’esperimento di Al Gore con Current TV, e certamente adorato Vice, rivoluzionario. Brut, francese, nel campo dei new media è sicuramente il numero uno, ha dimostrato cosa vuol dire fare giornalismo sui social andando ben oltre i video selfie fatti dalla redazione o, peggio, dal salotto di casa: eccellenti! La Francia è un bel riferimento da questo punto di vista, ma anche in Italia stanno succedendo cose interessanti, prima di tutto nel campo della divulgazione, e stanno nascendo anche tante newsletter di valore.

Com’è composta la tua redazione e come siete organizzati?

Si divide in due principali pilastri: il contenuto (the king) e la distribuzione (the queen). Il primo è coordinato da Federica Palladini e il secondo dalla nostra Social Media Manager, Erica Giagnorio.

Facciamo un rapidissimo briefing mattutino all’arrivo della rassegna e iniziamo a lavorare. Cerchiamo di gestire il workflow facendoci aiutare, quanto possibile, dalla tecnologia, e stiamo creando una rete di collaboratori esterni su tutto il territorio nazionale.

Cosa significa per te “andare oltre i confini del cibo” e che obiettivi ti sei dato per Chef in Camicia? Puoi darci qualche anticipazione delle novità che avete in serbo per i vostri follower?

Significa non parlare di cibo per parlare solo di cibo. Vuol dire che il cibo può essere una porta di ingresso per trattare svariati temi che afferiscono al mondo degli stili di vita. Facciamo ricette, ma facciamo anche informazione, intrattenimento ed educazione. Visto che siamo il popolo che parla di cibo anche mentre è a tavola, allora non vedo perché il cibo non possa essere il comune denominatore di narrazioni inaspettate. Questo ha una rilevanza editoriale ma apre anche numerose opportunità commerciali per il nostro media, perché ci permette di allargare la platea di partner con cui collaborare oltre la categoria merceologica del cibo. Abbiamo appena stretto una partnership con Eccellenza Italiana centrata sulla straordinarietà del nostro territorio, e con Dotz Media, con il quale esploreremo il mondo delle comunità straniere in Italia attraverso le loro abitudini e tradizioni culinarie. Stiamo cominciando a creare una serie di video divulgativi che aiutino il pubblico a fare scelte più consapevoli, e stiamo andando sul campo a raccontare filiere e industria del food. Poi ci sono le storie delle persone, protagonisti con cui riusciamo a creare empatia, interesse e curiosità. Credo fortemente nella conoscenza come strumento di decisione, e la conoscenza non è nei nostri smartphone o nei nostri uffici. È lì fuori, e dobbiamo essere noi a portarla sugli smartphone del pubblico.

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