“Pas d’ordinateur. Merci”. Detto – anzi, scritto – così suona come una melodia. In realtà è il perentorio divieto apparso su molte vetrine di bistrot e caffè parigini, dove, come prassi ormai in tante metropoli (Milano inclusa), chi lavora da remoto si parcheggia per ore senza ordinare niente più di un caffè o un cappuccino. Così i tavoli rimangono occupati e nelle tasche dei gestori non finisce che qualche briciola.
D’altronde – riporta Gamberorosso – scrivere un pezzo, fare conti o rispondere a mail seduti al tavolino di un locale – magari all’aperto – con connessione internet ed elettricità gratuite ha i suoi vantaggi in termini economici, e un suo innegabile fascino bohèmien.
Lo spazio vitale negli appartamenti moderni delle grandi città, inoltre, è inversamente proporzionale all’ammontare dell’affitto (come dimostrano le recenti proteste degli studenti in tenda di fronte al Politecnico di Milano e alla Sapienza di Roma), e spostarsi altrove nasce come esigenza prima di diventare un trend sulla cui scia sono sorti anche da noi concept polifunzionali in qualche caso pure di un certo spessore gastronomico (tornando a Milano, Tipografia Alimentare, Ostello Bello, Hug Milano, giusto per citarne alcuni).
Ma ora le regole, almeno in Francia, pare stiano cambiando. Ci sono baristi che cacciano chi apre il computer e altri che impongono lo stop nelle fasce orarie più calde (pausa pranzo, dopo le 19, fine settimana). Chi ancora, come Starbucks, ha stabilito una tariffa oraria sulla falsariga degli “anticafé”, una catena – con altre sedi fuori Parigi, anche una, oggi chiusa, in Italia – ideata da uno studente ucraino, Lenoid Goncharov, dove si paga il tempo di permanenza e non la consumazione: dall’ingresso all’uscita si può ordinare ciò che si vuole e usufruire liberamente dello spazio coworking secondo una tariffa oraria o giornaliera. Una specie di “parcheggio”, insomma, ma con “la flexibilité d’un café, l’équipement d’un coworking et le comfort de la maison”.