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Mer. Dic 25th, 2024


In Italia il vino è espressione di territori specifici e tipici, certificati dalle denominazioni di origine, o al contrario ampie porzioni di produzione sono sempre più scollate da un territorio di riferimento e puntano a sapori standardizzati ottenuti attraverso l’uso di tecnologie messe a disposizione dalla chimica alimentare? I lieviti selezionati sono prodotti da multinazionali che sviluppano, brevettano e poi vendono in tutto il mondo i loro prodotti. Il risultato è la creazione di vini che dalla California alla Francia, all’Italia e all’Australia finiscono per avere sapori standard e ricorrenti: banana, pompelmo, gelsomino, e così via. Attraverso una serie di documenti inediti e testimonianze di persone che lavorano nel settore del vino, nella puntata di ieri sera Report ha ricostruito meccanismi e casi specifici sia di grandi produttori e aziende imbottigliatrici sia di piccoli produttori che creano il loro vino dalla vigna alla bottiglia.

 “Con lieviti e aggiunte si possono ottenere vini uguali e prestigiosi anche se provenienti da parti del mondo diverse, ma cosa resta del vero vino dei territori? I produttori di vino che fanno grandi volumi preferiscono spesso un vino standardizzato, facilmente riconoscibile dal consumatore, che ogni anno abbia la stessa gradazione alcolica. Per ottenere un risultato di questo tipo i produttori devono aggiungere del mosto concentrato rettificato, una misura prevista come straordinaria per aiutare i viticoltori in annate particolarmente avverse che oggi invece sembra diventata ordinaria ed è usata per creare un vino dal grado alcolico standardizzato” si legge nel profilo social della trasmissione.

“I lieviti che aggiungiamo – spiega Riccardo Cotarella, presidente Assoenologi ripreso da Agricoltura.it – non vengono da materiale inorganico, ma vengono dall’uva. Il compito del lievito è di trasformare gli zuccheri in alcol, ci sono lieviti che estraggono dal mosto, dalla buccia sensazioni più forti, ma non è che danno le loro sensazioni, agiscono in maniera diversa su quell’uva, estrapolando caratteri che possono essere positivi o negativi. Sta all’enologo decidere quali lieviti utilizzare, ma non è che il lievito può dare un corpo o una personalità a un vino, è l’uva che da personalità ad un vino”.

GAMBERO ROSSO NON CI STA


I lieviti non uniformano i vini, spiega Gambero Rosso: se così fosse trovato il lievito giusto, avremmo grandi vini dalla stessa uva ovunque. I lieviti giocano un ruolo molto molto limitato nell’aroma dei vini rossi, perché i precursori aromatici sono nelle bucce in quantità determinanti, mentre hanno più peso nelle fermentazioni “in bianco”, ovvero senza le bucce: in questi vini, gli esteri prodotti dai lieviti danno un corredo aromatico a vini che, proprio per l’assenza di bucce nel processo fermentativo, avrebbero meno caratteri propri da trasferire al vino.

Se non si usano lieviti selezionati, i vini fermentano con lieviti presenti essenzialmente in cantina, non sulle bucce (a meno che non si tratti di quelle lacerate dalle punture di vespe o calabroni) come pure si crede e naturalmente Report va ripetendo. Ovviamente, aumenta il rischio che altri microrganismi agiscano sul mosto prima che i saccaromiceti prendano il sopravvento e questo può incidere sul prodotto finito e il suo aroma. E non sempre quanto fanno i microrganismi diversi dai lieviti saccaromiceti è desiderabile.

Dunque, la base di partenza di Report è un assunto (i lieviti selezionati uniformano) e perpetua un equivoco (i lieviti sono sull’uva, mentre ciò non è vero). Il punto chiave però, e mi sembra giusto sottolinearlo, è che tutta questa filippica contro i lieviti selezionati e il mosto concentrato rettificato (MCR) dovrebbe contrapporre i piccoli (virtuosi, bravi, comunque migliori, secondo l’antica testardaggine di Veronelli) ai grossi produttori industriali. E punta a dare l‘idea che comunque, MCR e lieviti selezionati se non sono reati sono comunque deprecabili.


In realtà, ci sono produttori da pochissime bottiglie che usano lieviti selezionati e MCR, mentre grandi produttori vi rinunciano più che volentieri. Perché? Perché legittimamente esistono diversi mercati del vino, in misura corrispondente a quanti diversi tipi di consumatori esistono. Se il mercato di un vino è fatto di consumatori quotidiani, simili alla maggioranza dei bevitori di vino del passato, l’uniformità tra le annate sarà un valore, perché il vino sarà una bevanda.

Viceversa, se il vino è puro piacere edonistico, fuori dall’abitudine di consumo, allora tanto maggiore è la varietà tanto migliore è la proposta al mercato. Si può giudicare uno metodo come migliore e soprattutto moralmente superiore all’altro, essendo entrambi ugualmente leciti e fondati in ugualmente legittime scelte aziendali? Ne dubito.


Laddove Report fa centro secondo Gambero Rosso è sulla critica delle commissioni di degustazione che oggi sono fatte in modo tale da premiare un modo di fare il vino, che raramente è quello meno standardizzato e interventista. Per correggere questa stortura, anni fa la FIVI propose che nelle commissioni di degustazione ci fosse sempre un vignaiolo produttore, con almeno dieci anni di esperienza.

Perché? Perché tra chi decide se un vino corrisponde a un modello definito in un disciplinare ci fosse anche chi rischiava le proprie risorse nel rapporto con il mercato, non solo enologi e assaggiatori. Questo perché, ancora una volta vale la pena ricordarlo, le commissioni di degustazione, con il potere di declassare i vini, sono state una battaglia (vinta) indovinate di chi… esatto, Luigi Veronelli, che le chiedeva con veemenza ne Il vino giusto (Rizzoli, 1971). Recuperare all’evoluzione del mercato, che ben conoscono i produttori, le commissioni di degustazione è l’unico modo di non gettare il bambino con l’acqua sporca.

(…)

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