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Mar. Nov 19th, 2024

«Vuoi vedere che il piatto più rappresentativo del nostro paese è la pasta e ceci?». A dirlo è Arcangelo Dandini, chef romano ambasciatore del gusto a capo di locali come Chorus, L’Arcangelo e Supplizio a Roma e che sta per aprire le porte di Garum a Londra (il 20 ottobre).

«Altro che spaghetti al pomodoro…», prosegue. «La salsa di pomodoro l’ha sdoganata Francesco Leonardi alla fine del Settecento. La conserva, Cirio nel Novecento e la pasta secca fino al Novecento si mangiava solo in Campania o quasi…». In effetti, sulle prime, potrebbe sembrare un ragionamento singolare. Ma basta approfondire un po’ per rendersi conto di quanto sia fondamentale per la nostra tradizione la pasta e ceci. E’ quanto scrive Gemma Gaetani su “la Verità”.

Che ritroviamo già presso gli antichi romani. La loro «protopasta» si chiamava lagnum, nome di cui oggi troviamo traccia etimologica in alcune paste – asciutte oppure in pasticcio o in minestra, magari coi ceci – che derivano dall’Impero romano il nome, come le lagane. A Nord, erede diretta di quella pasta è la lasagna. Per alcuni «lagana» e «lasagna» hanno la stessa origine, etimologica e antico-romana, derivando «lasagna» dal greco, da cui il latino lagnum. Per altri invece l’etimo di lasagna sarebbe il latino lasania, dal greco, che indica un tipo di recipiente da cucina.

A prescindere da questo dettaglio, come spiega anche il Gambero Rosso, «forse qualche tipo di pasta era già conosciuta al tempo dei Romani. […] Ciò che sappiamo per certo è che il metodo più antico usato dai Romani per consumare i cereali era la puls, una polenta piuttosto liquida che, a partire dalla fine dell’epoca repubblicana, venne sostituita gradualmente dal pane. Oltre alla cottura in forno, è certo che i romani usassero friggere gli impasti di acqua e farina, mentre non viene mai menzionata la lessatura in acqua» intesa come la intendiamo oggi, cioè una pasta che si lessa da sola e poi si condisce.

Non c’erano nemmeno tutte le forme odierne di pasta, naturalmente. Ma tutto era in nuce. Nelle Satire, Orazio elogia la vita semplice che consiste, per esempio, nel tornare a casa la sera a mangiare porri et ciceris laganique catinum. Ossia, un bel piatto di porri, ceci e lagnum. Apicio parla di lagnum anche nella ricetta della Torta quotidiana, un pasticcio che ricorda le lasagne o il pasticcio di pasta contemporanei e che prevede strati di farcia di carne, pesce, garum eccetera, alternati a strati di lagnum cioè sfoglia. Lagnum era dunque la sfoglia di acqua e farina di cereali (la cui forma non era unica, né certa) che è alla base di molte paste odierne e che pare fosse grigliata o fritta e solo poi posta in minestra.

Nelle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (VI-VII secolo), la voce «laganum» è indicata come «una pasta larga e sottile, cotta prima nell’acqua, poi fritta nell’olio». Anche nel saggio I napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni» pubblicato nel 1958 sulla rivista Cronache Meridionali, Emilio Sereni ipotizza che la lagana greco-romana fosse un disco di pasta prima lessata e poi fritta o grigliata su pietra rovente, talvolta tagliata a strisce e aggiunta alle zuppe.

Secondo Sereni, i greci introdussero la lagana in Calabria e così la conobbero i romani. Sono ipotesi: non si può affermare con certezza se questa protopasta si lessasse come oggi oppure no, ma è comunque inconfutabile che il lagnum si usasse a sfoglia grande come la lasagna odierna e anche a strisce che si trattavano come oggi facciamo con le lagane o, per usare un altro termine, i maltagliati. Come si passa dal lagnum agli spaghetti in pacchetto di oggi?

La prima attestazione della pasta essiccata in Italia, secondo alcune fonti riprese anche da Wikipedia, si trova nel Libro di Ruggero pubblicato nel 1154. Nel testo Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Termini Imerese come zona in cui si fabbrica una pasta a fili modellata manualmente. Al-Idrisi indica questa pasta col termine generico di itriyya, traslitterazione araba del greco itrion che significava «impasto di acqua e farina cotto in un liquido» e si tratta senza dubbio di un’evoluzione del lagnum di epoca romana: per ottenere un filo di pasta da una sfoglia basta tagliare la sfoglia in pezzetti e poi arrotolarli espandendoli, poi seccare anziché friggere, grigliare o lessare.

Lo scrivono anche Silvano Serventi e Françoise Sabban in La pasta. Storia e cultura di un cibo universale (Laterza): «La sfoglia non è più matrice unica per la preparazione di molti altri formati di pasta.

Ora è in concorrenza con un’altra tecnica, quella del filo o filamento, che consiste nel modellare piccoli frammenti di pasta con le dita o con le mani, facendoli rotolare su un tavolo fino a ottenere un formato di pasta che con un termine generico si chiamerà vermicelli». O anche maccheroni, termine con cui, tuttavia, nel Medioevo si indicavano anche quelli che oggi chiamiamo gnocchi. Si chiameranno anche spaghetti, cioè piccoli spaghi, lemma che entrerà in uso nel XIX secolo.

Questa pasta, una volta essiccata, veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l’area del Mediterraneo musulmano e cristiano. Col passare dei secoli l’area campana amplificherà la produzione, specie in luoghi come Amalfi e Gragnano, che presentano un microclima perfetto grazie a vento, sole e giusta umidità. L’invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta (chiamato in napoletano ‘ngegno) permetterà una produzione ancora più veloce.

Il resto – cioè il condimento di pomodoro che si diffonde tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo creando lo stereotipo degli spaghetti al pomodoro come la pasta italiana – è storia che conosciamo. Ora sappiamo che molto probabilmente le lagane e gli antichi Romani siano i genitori degli spaghetti, lagnum è la sfoglia antenata della pasta contemporanea e della lasagna, come l’itriyya araba che diventa itrium in latino e poi tria in alcuni dialetti lo è della pasta secca.

Ed eccoci arrivati alla pasta e ceci. In Campania e Basilicata si chiama lagane e ceci, in Puglia si chiama ciceri e tria e in entrambi i casi si prevede una manciata di lagane o tria fritte in cima al piatto: quello che può sembrare un vezzo è invece un residuo della cottura della «protopasta» dei romani.

A testimoniare il passaggio dalla lagana allo spaghetto sempre in Puglia ci sono anche i laganari, sorta di lagane allungate e arrotolate a diventare spaghettoni. E ci sono le sagne, anche dette sagne ‘ncannulate o sagne torte. In Abruzzo si preparano sagne e ceci, in Molise ci sono le sagne a pezzate, in Lunigiana le lasagne bastarde (o matte) e in Veneto le tagliatelle si chiamano… lasagne (e le lasagne pasticcio). C’è poi la laina del basso Lazio, anche questa pasta lunga come le precedenti anche indicata al plurale, laine, o con termini come lacne, làccane o làcchene.

La lacna stracciata di Norma è prodotto agroalimentare tradizionale laziale e si ottiene impastando farina di grano duro con acqua e sale, poi stendendo una sfoglia col lainaturo (matterello) e tagliandola in strisce irregolari che si condiscono con sughi poveri come, appunto, il sugo ai ceci. In Le ricette dimenticate della cucina regionale italiana (Newton Compton), Samuele Bovini propone una «antica ricetta» delle «vere lagane».

Dopo aver impastato semola di grano duro, farina 0, acqua tiepida e sale – spiega – bisogna «scottare il rettangolo di pasta da entrambi i lati su una piastra antiaderente. Lasciar diventare croccanti entrambi i lati, quindi porre l’impasto ancora sulla spianatoia e ricavare con il coltello delle grosse tagliatelle lunghe circa 10 cm e larghe circa 3 cm. Questa pasta va poi bollita in maniera tradizionale in acqua e condita con salse dal sapore molto strutturato, come del ragù dalla lunga cottura o simili».

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