Una persona su 3 in Italia soffre di disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, nel mondo è una su 5. Non si tratta semplicemente di abitudini scorrette legate al cibo, ma di disturbi di natura psichiatrica con un’alta frequenza di complicanze mediche, che possono portare anche alla morte. E che per questo richiedono un trattamento specifico e la collaborazione tra diverse figure professionali, che si occupino in modo integrato dei diversi aspetti, sottolineano gli esperti della Società italiana di nutrizione umana (Sinu), in vista della Giornata nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi del comportamento alimentare, che ricorre il 15 marzo.
Questi disturbi – riporta Adnkronos – colpiscono sempre di più e sempre più giovani: in sette casi su dieci a soffrirne sono adolescenti. “E’ fondamentale – rimarcano dalla Sinu – trasferire corrette informazioni alla rete di relazioni di questi giovani (famiglie, amici, insegnanti, istruttori di palestra) per l’identificazione tempestiva di questi disturbi. Ad esempio, una particolare attenzione verso l’aspetto fisico o l’alimentazione possono nascondere una situazione di disagio psicologico e rappresentare un campanello d’allarme”.
Una categoria a rischio di sviluppare disturbi alimentari sono gli sportivi e gli atleti a ogni livello di competizione. Infatti, “una particolare attenzione all’immagine e alle forme corporee, il dover rimanere in una specifica categoria di peso, il dover indossare uniformi o costumi, così come la pressione derivante dal raggiungimento della vittoria, possono essere fattori scatenanti per un disturbo alimentare”, avvertono gli esperti che rimarcano: “Trattandosi di una vera e propria patologia, il riconoscimento e il trattamento precoce sono fondamentali per aiutare i soggetti colpiti. Tuttavia, a differenza di altre situazioni, spesso chi ne soffre non percepisce il disturbo come malattia e non accetta di intraprendere un percorso di cura, pensando che una ‘dieta’ o anche un’attività fisica esasperata possa portare alla risoluzione del problema”.
In Italia, evidenzia Sinu, “è ancora troppo scarsa l’attenzione ai segnali di disagio psicologico e tuttora si assiste alla stigmatizzazione nei confronti di chi necessita e richiede un aiuto psicologico-psichiatrico”. Negli ultimi tempi si è ampliato lo spettro dei disturbi alimentari, con nuove patologie emergenti come vigoressia, pregoressia, drunkoressia, ortoressia.
Ma, “nonostante l’aumento di queste patologie, diffuse in tutto il territorio nazionale, persiste una difficoltà di accesso alle cure in molte regioni italiane, con gravi conseguenze sulla prognosi, che risulta essere influenzata soprattutto dalla precocità dell’intervento e dall’adeguatezza del percorso assistenziale”. Le 126 strutture censite nella mappatura territoriale dei Centri dedicati alla cura dei disturbi dell’alimentazione e nutrizione, realizzata dal ministero della Salute, sono “insufficienti rispetto al numero crescente di pazienti che necessitano di cure appropriate e posti disponibili, distribuiti in modo omogeneo tra Nord, Centro e Sud. Sono necessari nuovi centri, strutture residenziali e ambulatori specializzati su tutto il territorio nazionale, per garantire ai pazienti cure e ambienti adeguati, anche in vista della sempre più giovane età dei soggetti colpiti”.
“I disturbi del comportamento alimentare sono una patologia complessa – afferma Livia Pisciotta, membro del Consiglio direttivo della Sinu – Sono classificati come una malattia psichiatrica per cui devono essere diagnosticati prioritariamente dallo psichiatra e trattati da equipe multidisciplinari, in quanto comportano come conseguenze patologie importanti, che possono compromettere seriamente la salute di tutti gli organi e apparati del corpo (cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino, ematologico, scheletrico, sistema nervoso centrale, dermatologico) e, nei casi gravi, portare alla morte. Una volta identificato il problema è indispensabile, quindi, un approccio multidisciplinare ed integrato e garantire la continuità delle cure, che possono durare anni o anche tutta la vita. Dobbiamo continuare a costruire una rete di prevenzione e protezione, un percorso comune e condiviso, che va dall’informazione alla diagnosi precoce e alla cura, in base alla gravità del quadro clinico”.